Lo smartworking: così vantaggioso da restare dopo la pandemia?Tempo di lettura stimato: 18 min

di Alessandra Sperati

Gli effetti psicologici dello smartworking: è davvero una nuova modalità di lavoro?

Smartworking. Conosciuto – anche prima del Covid-19 – come lavoro intelligente e agile, a primo impatto non può che avere un’accezione positiva: per definizione, infatti, si tratta di una modalità di lavoro caratterizzata da flessibilità e autonomia in spazi e tempi lavorativi, nonché dall’opportunità di lavorare in qualsiasi posto away from the office. Il suo essere smart garantisce un incremento nell’uso delle tecnologie e un approdo a modalità di lavoro innovative in cui la flessibilità spaziale e temporale stimola creatività e produttività (Fragouli & Ilia, 2019; Fogarty et al., 2011; Kang & Kwong, 2016).  

Ma poi è arrivato il Covid-19…

Se, prima della pandemia, la modalità di lavoro da remoto veniva concessa e scelta solo da una discreta percentuale di lavoratori, l’#IoRestoACasa (Gazzetta Ufficiale, 2020) ha obbligato per necessità scuole, aziende e organizzazioni pubbliche e private a passare improvvisamente ad una modalità di lavoro da casa e quella positiva flessibilità almeno in termini di spazi si è inaspettatamente imposta.

Così, gran parte dei lavoratori dall’oggi al domani è stata obbligata a restare a casa anche per lavorare, vedendo trasformarsi le proprie cucine in uffici e i propri salotti in aule scolastiche e quella chiarezza dei confini casa-lavoro, garantita dal setting lavorativo tradizionale, è stata improvvisamente minacciata (Bouziri et al., 2020). Infatti, se fino al marzo 2020, per molte categorie professionali l’attività lavorativa si realizzava in ufficio o comunque in un luogo diverso da casa, in interazione con quelle solite persone, diverse dai familiari, e durante un preciso lasso di tempo, le misure di contenimento e la necessità di distanziamento sociale hanno inevitabilmente ribaltato questo work-setting tradizionale, con il rischio che quella flessibilità e quella autonomia si trasformassero in un’indifferenziazione di spazi e tempi minacciosa per il benessere psico-fisico dei lavoratori.

Lo chiamiamo smartworking ma eravamo semplicemente in remote working

Il termine smartworking in inglese significa letteralmente lavoro intelligente. Questa definizione è la giusta etichetta per il lavoro da remoto che siamo stati chiamati ad improvvisare dalla primavera 2020? No! Infatti benché il termine smartworking sia sulla bocca della maggior parte degli italiani i quali lo utilizzano per definire il loro lavoro da casa – anche se c’è da dire che dall’inizio della pandemia e dopo il picco registrato nel marzo 2020, l’uso del termine smartworking nelle ricerche su internet da parte degli italiani si è stabilizzato Palumbo, 2021) – in altri paesi si preferisce il termine remote working, ovvero lavoro da remoto o da casa.                                                                                                              

Sono indubbie, perciò, la difficoltà e la mancanza di chiarezza nel fornire un’adeguata etichetta alla tipologia di lavoro svolta dall’inizio della pandemia e tale difficoltà rispecchia probabilmente la confusione tanto organizzativa quanto d’implementazione che il lavorare da casa ha generato sia all’interno dei gruppi di lavoro che nel management.                                              

Anche se non è questo il luogo né lo spazio per chiarimenti linguistici o per stabilire l’etichetta più adatta da attribuire alla tipologia di lavoro che abbiamo svolto a partire da marzo 2020, quello che ci preme sottolineare è che l’incertezza attorno al lavoro da casa e le sue modalità è andata – speriamo temporaneamente – a riflettersi sulla sua definizione, portando ad una poca differenziazione dei termini. Non possiamo quindi che auspicarci che, man mano che il lavoro da casa sarà regolamentato ed implementato in maniera non emergenziale, anche la corretta definizione e una chiarezza terminologica ne andranno a beneficiare.                                                                                    

In questo articolo verrà utilizzato il termine smartworking, tenendo conto che è quello più in voga in Italia rispetto ad altri Paesi (Palumbo, 2021), occorre specificare tuttavia che la tipologia di lavoro da casa svolta da marzo 2020 andrebbe più correttamente intesa come remote working.

Lavorare da casa durante la pandemia è stato sempre vantaggioso e innovativo?

Dipende. È indubbio che il ritrovarsi improvvisamente in una modalità di lavoro da casa abbia inevitabilmente rappresentato un cambiamento improvviso, comportando una drastica riduzione dei contatti con i colleghi e il ricorso a video-conferenze, facendo di queste l’unico strumento di comunicazione costante che in alcuni casi è sfociato nella così detta Zoom Fatigue, ovvero un sentimento di discomfort e affaticamento legato al susseguirsi di numerose video-call, le quali non permettendo il contatto visivo e lo scambio di guardi potrebbero impattare negativamente su diversi processi cognitivi, come ad esempio sull’attenzione condivisa e sulla cooperazione creativa.

Photo by Chris Montgomery on Unsplash

Cosa ci dicono le Neuroscienze?

A riguardo e più precisamente, alcuni contributi in ambito delle neuroscienze hanno mostrato come il passaggio dell’attività lavorativa dal tipico ufficio all’interno delle piattaforme di video-conferenza sia associato ad alterazioni nel funzionamento neurale, come ad esempio nell’attività dei neuroni GPS che guidano il nostro senso spaziale e il nostro comportamento di orientamento. Durante le video-call, infatti, ci troviamo a condividere, nello stesso tempo, più ambienti: la stanza in cui fisicamente stiamo e l’ambiente virtuale in cui si realizza l’interazione; eppure, spazi digitali come Zoom o Meet o Teams per il nostro cervello sono dei non-luoghi vista la loro virtualità e questo ci porterebbe a sperimentare un senso di placelessness, ovvero un senso di senza luogo, trovandoci, al tempo stesso, ovunque e da nessuna parte, con ripercussioni sulla creazione di memorie autobiografiche.                

Durante una video-conferenza, inoltre, possiamo vedere solamente i volti delle persone e al tempo stesso siamo costantemente esposti al nostro, cosa che non avviene nelle interazioni in presenza.

Il fatto che solo i volti siano accessibili comporta l’impossibilità di accedere ad una ampia gamma di segnali non verbali legati al corpo con la conseguente difficoltà nei processi di sintonizzazione intenzionale, così come l’essere costantemente esposti a più volti contemporaneamente aumenta la produzione di cortisolo nonché della percezione di stress e affaticamento – rappresentando per il nostro cervello un’esposizione costante ad un pubblico.  

Il vedere il nostro volto comporta invece uno spostamento della nostra attenzione sul controllo dei nostri movimenti facciali, attivando i network auto-attentivi e diminuendo il focus attentivo sugli altri e sui contenuti. Tali caratteristiche di una apparentemente semplice video-call possono perciò avere ripercussioni sul funzionamento dei neuroni specchio, dei network attentivi e delle cellule del fuso, la cui attivazione tipica è legata a contesti di interazione in presenza fisica (Riva et al., 2021).      

Cosa ci dicono le evidenze scientifiche sugli effetti psicologici del lavorare da casa?

Ciò nonostante, le attuali evidenze scientifiche, riguardanti gli effetti del lavorare da casa e di questi cambiamenti sul benessere psicologico, sull’equilibrio casa-lavoro, sulla produttività e soddisfazione lavorativa, offrono uno scenario eterogeneo e variegato che vede risultati differenti, talvolta contrastanti: l’impatto e gli effetti dello smartworking durante la pandemia sembrano perciò essere non univoci ma moderati dall’entrata in gioco di alcune variabili.                                             

Tale eterogeneità appare legata innanzitutto alle categorie professionali coinvolte e la professione insegnante sembrerebbe avere il primato come The most stressful profession, avendo gli insegnanti dichiarato maggiori livelli di stress e un maggior carico di lavoro percepito legati al lavorare da casa rispetto ai lavoratori di azienda e ad altre categorie professionali (Osservatorio sullo Smartworking e la Fiducia nelle Organizzazioni del Dipartimento di Neuroscienze dell’Ateneo di Chieti-Pescara, 2021; Mari et al., 2020). Il passaggio ad una didattica esclusivamente a distanza, governata dai soli mezzi digitali, sembrerebbe quindi aver rappresentato una minaccia al benessere psicologico per gli insegnanti, i quali dichiarano la necessità di tornare ad una didattica in presenza.        

I risultati contrastanti sembrano inoltre essere legati alle caratteristiche individuali e ambientali indagate dagli studi. Alcuni studi presentano una generale insoddisfazione da parte dei lavoratori in smartworking – talvolta osservata anche rispetto a chi ha continuato a recarsi sul luogo di lavoro – i quali dichiarano la presenza o l’aumento di problematiche a livello fisico, come torcicollo e dolori alla schiena, e psicologico, come sintomatologie ansiose e/o depressive accanto ad un basso senso di soddisfazione, produttività lavorativa e difficoltà di mantenimento dell’attenzione.

Se avere una stanza esclusivamente dedita all’attività lavorativa che offra una postazione ergonomica e confortevole, tranquilla e poco rumorosa, accanto ad una dieta sana e allo svolgimento di attività fisica è risultato associato ad una minore possibilità di cadere e sperimentare sintomatologie psico-fisiche nei lavoratori in smart, evidentemente questi comportamenti, magari per cause di forza maggiore, non sono stati attuati da tutti.  

Al tempo stesso, l’equilibrio tra lavoro e vita familiare, messo inevitabilmente alla prova per tutti, non è risultato minacciato allo stesso modo per uomini e donne, rivelandosi particolarmente precario nelle mamme lavoratrici, su cui sembra essere ricaduto maggiormente il carico della gestione di casa e figli. L’improvviso passaggio al lavoro da casa è stato affiancato dalla chiusura delle scuole e per molti lavoratori in remoto, soprattutto per le donne, questo ha significato dover gestire e occuparsi dei figli, a loro volta impegnati con la scuola online, mentre svolgevano la loro attività lavorativa da casa. Non stupisce perciò che genitori lavoratori, maggiormente le donne il cui partner ha continuato a lavorare, abbiano dichiarato una maggiore presenza di condizioni psicologiche allarmanti quali alti livelli di stress, sintomatologia ansiosa e depressiva rispetto ai lavoratori senza figli a carico (Del Boca et al., 2020; Xiao et al., 2020).     

Nonostante gli aspetti negativi dello smartworking – sicuramente acutizzati nella prima fase di lockdown generale della scorsa primavera – non è possibile affermare che l’esperienza del lavoro da casa durante la pandemia sia stata uguale per tutti; anzi, da alcune ricerche emerge l’immagine di uno smartworking comodo, vantaggioso e innovativo: alcuni lavoratori in smart hanno dichiarato infatti alti livelli di soddisfazione lavorativa legata sia alla comodità di non dover spostarsi per raggiungere il posto di lavoro – evitando così spese e sforzi legati agli spostamenti – sia all’autonomia in spazi e tempi, garantita dalla modalità di lavoro da remoto, in grado di promuovere produttività ed innovazione.                                                                                                 

L’indagine dell’Osservatorio Smartworking, inoltre, mostra come la totalità dei lavoratori (in alcune aziende coinvolte il picco arriva a toccare il 97% dei lavoratori intervistati) continuerebbe a lavorare da casa anche dopo la situazione emergenziale. Le – poche – opinioni negative spariscono quando si chiede non se si continuerebbe personalmente a lavorare in smartworking bensì se si consiglierebbe ad altri di farlo, dimostrando che forse sono piuttosto vincoli personali (es. famiglie molto numerose, mancanza di spazi adeguati, pochi benefici in termini di risparmio di tempo) a scoraggiare le persone a continuare a lavorare da casa, piuttosto che fattori aziendali e organizzativi. Analizzando le risposte aperte, il fil rouge è tuttavia ben chiaro: i lavoratori sono disposti a continuare a lavorare da casa ma non full time e non per tutta la settimana. Qualcuno proporrebbe addirittura di inserire lo smartworking come un benefit.                                                                                     

Se il lavorare da casa full time è quindi tendenzialmente opzione scartata, un’ulteriore indagine dimostra come i lavoratori sono d’accordo nel considerare il due come il numero perfetto di giorni a settimana per lo smartworking (Mull, 2021).

Per concludere…

Lo smartworking può davvero diventare una modalità di lavoro diffusa o presto sarà solo un lontano ricordo?

Non potendo offrire una risposta definitiva, le evidenze scientifiche pur nella loro eterogeneità tengono aperta la possibilità di considerare lo smartworking come un nuovo modo di lavorare, trasformando perciò una necessità in una opportunità.                                                     

Da quanto affermato finora e tenendo conto che una parte dei lavoratori ha dichiarato gli effetti benefici dello smartworking, sembrerebbe che la modalità di lavoro da casa, fuori dal contesto pandemico, non smetta di essere vantaggiosa e innovativa, mantenendo fede all’iniziale definizione positiva. Ciò significa che una modalità di lavoro da remoto non è stressante e poco produttiva di per sé ma è stata la situazione di emergenza atipica e critica – come la pandemia nella quale si è improvvisamente imposta – ad averla resa tale, specialmente per alcuni gruppi professionali.

Secondo una prospettiva applicativa, si potrebbe suggerire quindi che un po’ di smart working, nella sua flessibilità, non guasta mai. Pur consapevoli che un’eccessiva ed esclusiva attività lavorativa da casa può minacciare il senso di benessere e produttività dei lavoratori, le organizzazioni e le aziende potrebbero comunque proporre lo smartworking come un’opzione facoltativa da affiancare ed alternare al lavoro in presenza – forti di tutti i progressi che la pandemia ci ha regalato a livello tecnologico – così da offrire al lavoratore la possibilità di godere di quella flessibilità in tempi e spazi, senza minacciare l’equilibrio casa-lavoro, garantendo i contatti sociali e limitando l’eccessivo ricorrere a video-conferenze.                

Fuori dal contesto pandemico, i contatti sociali e la possibilità di uscire non saranno più limitati, così come le scuole torneranno definitivamente alla tradizionale didattica in presenza, per questo la questione non dovrà tanto essere se lo smartworking può restare o meno ma come garantire che il lavoro sia un’esperienza piacevole e positiva, superando dove possibile il concetto di remote working e raggiungendo uno smartworking che rispecchi la definizione originaria, rendendo il lavoro realmente smart a sostegno della produttività e della creatività.

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L’autore

Alessandra Sperati è psicologa e dottoranda in Business and Behavioural Sciences all’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara. Specializzata in Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, collabora con il gruppo BabyLab dell’UdA e si occupa di studiare il ruolo della sincronia bio-comportamentale sia nelle interazioni madre-bambino che tra adulti oltre allo studio del tratto individuale della sensibilità all’ambiente, sia nei primissimi anni di vita che nel contesto lavorativo e aziendale.

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