di Alessandro Bortolotti e Francesca Bellante
Ti è mai capitato di comprare un prodotto alimentare perché il suo packaging era particolarmente elegante e curato? Oppure di lasciarti convincere a sottoscrivere un abbonamento perché il venditore era affascinante e carismatico?
In entrambi i casi – e in moltissimi altri possibili esempi – sei cadutə vittima di un fenomeno che prende il nome di “halo effect” o “effetto alone”: un meccanismo psicologico che ci porta a formulare un’opinione positiva sulla base di un attributo convincente, ma non necessariamente rilevante per la nostra scelta.
Quello che accade è una sorta di espansione “a macchia d’olio” della singola qualità positiva che osserviamo, che va a condizionare la nostra percezione di tutti gli altri attributi dell’oggetto della nostra attenzione. Così, di fronte a un bel packaging, siamo portatə in modo automatico a pensare che anche la qualità del prodotto sia superiore: un miglior sapore per un pacco di biscotti, un miglior profumo per un bagnoschiuma o uno shampoo, una maggiore efficacia o robustezza per un prodotto elettronico, e così via.
Allo stesso modo, di fronte a un venditore preparato, educato e con buone capacità comunicative, ci convinciamo che sia anche una persona onesta, esperta e una fonte autorevole di informazioni – e, di conseguenza, tendiamo a fidarci più facilmente di ciò che dice.
In questo articolo approfondiremo il fenomeno dell’halo effect e del cosiddetto bias di attrattività (attractiveness bias), illustrando in che modo questi influenzino i nostri processi decisionali e, in particolare, le nostre scelte d’acquisto.
L’halo effect
Nel vasto panorama delle decisioni umane, l’estetica gioca un ruolo significativo. La bellezza di un oggetto o di una persona può influenzare profondamente le nostre scelte, anche quando si tratta di decisioni razionali. In altre parole, se percepiamo qualcosa come esteticamente piacevole, siamo inclini a credere che possieda anche altre qualità desiderabili.
Questo effetto è stato ampiamente studiato nell’ambito dell’economia comportamentale e della psicologia del consumatore e, per comprendere il meccanismo psicologico alla base di questo effetto, gli studiosi hanno spesso utilizzato l’“effetto alone” o halo effect, come spiegazione teorica.
L’halo effect è oggi uno dei bias più studiati dall’economia comportamentale, ma è stato identificato per la prima volta oltre un secolo fa dallo psicologo americano Edward Thorndike.
Thorndike (1920) lo descrisse come il fenomeno per cui le impressioni positive su un attributo specifico di una persona, un’azienda, un marchio o un prodotto influenzino positivamente l’opinione o i sentimenti generali. Ma, riflettendoci, Thorndike non è stato il primo a rendersi conto di questa forte associazione: già gli antichi greci parlavano di “Kalokagathia”, ossia l’unione di bellezza, bontà (e, implicitamente, di ogni altra virtù).
Kalokagathia: “Ciò che è bello è anche buono”?
Il concetto di Kalokagathia, radicato nell’antica filosofia greca, evidenzia l’associazione intrinseca tra bellezza e bontà. Il termine Kalokagathia ha, infatti, origine dalla sostantivizzazione di una coppia d’aggettivi: καλός e κἀγαθός (kalòs, kagathòs), crasi di καλὸς καὶ ἀγαθός (kalòs kai agathòs), cioè “bello e buono” inteso come “valoroso in guerra” e come “in possesso di tutte le virtù”.
In particolare, il termine καλός per i greci si riferisce non solo a ciò che è “bello” per il suo aspetto sensibile, ma anche a quella bellezza che è connessa al comportamento morale “buono” (ἀγαθός).
Per Platone, la kalokagathia doveva essere l’oggetto dell’educazione dell’uomo eccellente: «Tutte le qualità buone e belle devono essere tenute in esercizio e la saggezza non meno delle altre.»
Halo effect ed effetto “Ciò che è bello è buono“
La kalokagathia dunque rappresenta la concezione greca del bene connessa all’azione dell’uomo e si sostiene quindi che vi sia una complementarità tra “bello” e “buono”: ciò che è bello non può non essere buono e ciò che è buono è necessariamente bello.
Un Platone moderno potrebbe dire che l’estetica del prodotto è una caratteristica saliente poiché viene percepita molto rapidamente rispetto alle caratteristiche di usabilità, che invece richiedono un certo grado di interazione con il prodotto prima di poter esprimere un giudizio.
Sebbene possa esserci qualche dibattito sul meccanismo psicologico alla base dell’effetto “ciò che è bello è buono“, non ci sono dubbi sul fatto che il meccanismo sia molto robusto, almeno se viene esaminato su un breve periodo. Sembra, infatti, che l’effetto positivo di un prodotto esteticamente accattivante sull’usabilità percepita svanisca nel tempo, questo ci consente di dire che l’estetica ha un valore altamente emozionale e ci influenza in un determinato momento -con un forte impatto emozionale- ma il suo effetto non è duraturo (Sonderegger et al., 2012).
Halo effect ed effetto “Ciò che è buono è bello“
Inoltre, numerosi studi hanno analizzato la relazione inversa tra usabilità e bellezza, evidenziando come la “bontà” (intesa come utilità, usabilità) di un prodotto possa portare a una maggiore percezione della sua bellezza, a posteriori (Tuch et al., 2012). Nell’esperimento in questione, Tuch e colleghi hanno chiesto a 80 partecipanti, divisi in 4 gruppi, di esprimere una valutazione di usabilità e di estetica rispetto a un sito di e-commerce, prima e dopo l’utilizzo.
A ciascun gruppo era proposta una versione del sito che differiva per alcuni elementi (es: nomi utilizzati per le etichette; colore e texture dello sfondo, elementi grafici decorativi), selezionati in modo da impattare rispettivamente sull’usabilità e sull’estetica percepita. I risultati hanno mostrato come un’estetica piacevole non influisca sull’usabilità percepita ma, viceversa, l’usabilità ha avuto un effetto positivo sull’estetica percepita nelle valutazioni post-utilizzo.
Prime impressioni, attractiveness bias e halo effect
Come ogni buon economista comportamentale sa, i processi decisionali sono spesso inconsapevoli e condizionati da bias. Uno di questi, strettamente legato al concetto di “effetto alone”, è il cosiddetto attractiveness bias (o beauty bias), secondo cui le persone tendono a formare le proprie opinioni sulla base di attributi immediatamente percepibili come la bellezza, piuttosto che su attributi più sostanziali ma meno evidenti (Asch, 1946).
Quando valutiamo l’acquisto di un prodotto, infatti, la sua gradevolezza estetica assume un ruolo speciale tra gli attributi che prendiamo in considerazione (Westerman et al., 2013). Non solo la presentazione visiva rappresenta il canale principale per la formazione del rapporto tra utente e prodotto, ma è anche un riflesso della nostra cultura e del nostro senso artistico.
Tuttavia, si tratta di un attributo molto complesso da indagare ed analizzare in modo critico senza incorrere in potenziali bias. Grazie alla sua natura visiva e altamente affettiva, la bellezza viene percepita immediatamente, come accade per un’opera d’arte.
In questo senso, è, quindi, molto differente da altri elementi, quali il prezzo, l’efficacia o la funzionalità, che richiedono del tempo e un certo grado di ragionamento per essere valutati correttamente.
Pertanto, la prima impressione e la risposta valutativa nei confronti del prodotto si basano fortemente sulla bellezza o, in generale, l’estetica del prodotto (Lindgaard, 2007). Questa valutazione immediata rappresenta un importante punto di partenza per ulteriori inferenze e bias annessi (Cannito, 2017) sul valore e sulla qualità del prodotto, proprio come l’arte può influenzare le nostre percezioni e aspettative sulla base delle previsioni “artistiche” che siamo capaci di fare (Bortolotti et al., 2024).
Ovviamente, questo rende la preferenza estetica un potente strumento di marketing, che può essere utilizzato per influenzare il comportamento del consumatore. Questa preferenza estetica si può intendere come un’aspettativa rispetto a delle immagini mentali che si creano sulla base delle nostre percezioni legate ad un prodotto e il suo modo di comunicare con il consumatore attraverso colore, brand ed altre caratteristiche estetiche (Bortolotti et al., 2023).
Razionalità vs Irrazionalità: la scelta più razionale è sempre la migliore?
L’effetto alone è oggetto di studi nel campo della psicologia e delle scienze comportamentali ormai da oltre un secolo, e – anche se non sempre va proprio così (ne abbiamo parlato nel dettaglio in questo articolo) – una maggiore consapevolezza porta a una migliore capacità delle persone di difendersi dai propri bias e metterli in discussione.
E qui ci troviamo di fronte ad una domanda: e se invece lasciarsi guidare dall’attrattività di un prodotto fosse la scelta più corretta sul lungo termine?
Sebbene la maggior parte dei prodotti non abbia come scopo principale quello di essere “esteticamente gradevole”, infatti, è importante considerare che la prospettiva di vedere e utilizzare quotidianamente un prodotto che si considera brutto può alterarne il valore percepito dall’utente (Norman, 2004). La mancanza di bellezza potrebbe, di fatto, essere un costante svantaggio fastidioso di un prodotto altrimenti ben funzionante, proprio come un’opera d’arte mal realizzata può generare sensazioni spiacevoli nell’osservatore.
Eppure, nel tentativo di una scelta razionale, logica e ben ragionata, tendiamo a sottovalutare l’impatto della bellezza sulla nostra esperienza con un prodotto.
Per questo motivo, secondo quanto affermano Hsee, Hastie e Chen (2008), le persone potrebbero sistematicamente non optare per ciò che massimizzerebbe la loro felicità (ossia la scelta basata sulla propria preferenza estetica) a causa dell’incapacità di prevedere correttamente la propria esperienza futura.
Un’interpretazione di questo fenomeno può essere attribuita al cosiddetto “Bias di proiezione” (Loewenstein, O’Donoghue, & Rabin, 2003), che ci porta ad avere difficoltà nell’entrare in relazione con le sensazioni, motivazioni e necessità del “noi del futuro” – quello che succede, ad esempio, quando sottoscriviamo un abbonamento annuale in palestra, sulla spinta di un ingiustificato ottimismo, e poi finiamo per andarci solo il primo mese.
Halo Effect e Razionalità superificiale
Tuttavia, un’altra interpretazione del fenomeno può venire dal concetto di “razionalità superficiale“, ovvero la tendenza a concentrarsi su attributi oggettivi, “hard”, piuttosto che su attributi soggettivi, “soft”, durante la fase di scelta (Hsee et al., 2003). Insomma, per evitare una scelta “non qualificata”, le persone ritengono una strategia più sicura fare affidamento su fatti e attributi concreti, poiché in generale, fare la scelta migliore viene interpretato come fare la scelta più razionale.
Allo stesso tempo, poiché gli attributi “hard” tendono ad essere più facilmente misurabili e, di conseguenza, comparabili (uno schermo da 60 pollici è indubitabilmente più grande di uno da 40; un biglietto aereo da 20€ è certamente più economico di uno da 50€), confrontare gli attributi “soft” dei prodotti, come il “design” o la bellezza, richiede uno sforzo maggiore, poiché implica una valutazione basata su criteri personali.
Rispondere alla domanda se “Paolo è più bello di Luca” è molto più difficile rispetto al confronto tra “Paolo è più alto di Luca”.
Un’altra sfaccettatura del razionalismo laico riguarda la centralità dei diversi attributi del prodotto. Gli attributi che non sono legati all’obiettivo o funzione primaria di un prodotto tendono ad essere scontati al momento della scelta (Hsee et al, 2003). Tuttavia, questi attributi periferici possono essere importanti per l’esperienza successiva del prodotto. Ad esempio, nella valutazione di un acquisto di un televisore, la qualità dell’immagine sarà un attributo più centrale mentre la qualità del suono un attributo piuttosto periferico. Per un’esperienza piacevole, tuttavia, sia l’immagine che il suono devono essere buoni, e concentrandosi solo sulla qualità dell’immagine si potrebbe finire con un’esperienza complessiva mediocre.
Qui inizia il “dilemma della bellezza”: la bellezza non può essere espressa come valore numerico, né è l’obiettivo primario di un prodotto interattivo. Quindi, anche se potremmo essere consapevoli che la bellezza è in grado di migliorare la nostra esperienza, la sua possibilità di essere pienamente riconosciuta al momento della scelta è piuttosto bassa. Questo è dovuto alla sua natura morbida e periferica.
Il desiderio di una scelta sobria, fredda e razionale può prevalere sulla bellezza nei prodotti interattivi. Certo, si può attribuire un valore numerico personale alla bellezza (“Paolo è un 7, Luca un 10”), ma tali valutazioni non hanno validità o significato universale. Quindi, il decisore non può essere sicuro che la sua scelta sia considerata la migliore dagli altri. Ma l’accettazione sociale di una scelta è importante.
Questo porta a un altro aspetto del dilemma della bellezza: la difficoltà di giustificare la scelta del prodotto basata principalmente sulla bellezza. Come sappiamo, però, dall’economia comportamentale, non acquistiamo in maniera del tutto consapevole, ma agiamo attraverso meccanismi “automatici” soggetti ad influenze emotive e bias. Se acquistiamo un prodotto “solo” perché è bello o “solo” perché ci piace, cosa stiamo facendo realmente? A quali bisogni risponde il prodotto che abbiamo scelto?
Conclusioni
La bellezza è un potente catalizzatore che influenza il nostro modo di vedere e interagire con il mondo che ci circonda. Come consumatori, dobbiamo essere consapevoli di come l’aspetto estetico possa influenzare le nostre decisioni. Attraverso l’estetica, esprimiamo i nostri valori, le nostre aspirazioni e le nostre emozioni. L’arte, l’architettura, la moda e il design sono tutti veicoli attraverso i quali trasmettiamo messaggi e creiamo connessioni con gli altri. La bellezza non è solo un’esperienza individuale, ma anche un riflesso della nostra cultura e del nostro tempo.
È importante fare attenzione a non cadere nella trappola dell’effetto alone e credere che tutto ciò che è bello sia necessariamente buono o di alta qualità. Ma, allo stesso tempo, non dobbiamo neanche sottovalutare l’importanza che le nostre preferenze estetiche possono avere sulla nostra esperienza d’uso di un prodotto.
✅ Revisione a cura di: Roberta De Cicco e Serena Iacobucci
✅ Editing a cura di: Sara Ferracci
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Autrici e Autori
Alessandro Bortolotti è psicologo e PhD in Business & Behavioral Sciences. Esperto in processi cognitivi, Alessandro si occupa di sviluppare un progetto di ricerca sulla percezione del colore nel marketing e nelle decisioni d’acquisto.
Francesca Bellante è una dottoranda in Business and Behavioral Sciences presso l’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Chieti-Pescara, con un background in Scienze della Comunicazione e Informatica Umanistica. I suoi interessi di ricerca includono il benessere organizzativo e, in particolare, la promozione della creatività nel contesto aziendale.
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