Rischio percepito e rischio reale.
Lezioni dalla naturaTempo di lettura stimato: 20 min

di Alessandro Bortolotti, Roberta De Cicco e Stefano Anzani

Immagina di trovarti di fronte a due sentieri in una tipica foresta italiana. Uno conduce a un pascolo in cui ci sono mucche che trascorrono le proprie giornate tranquille; l’altro, invece, a un bosco noto per la presenza di orsi. Quale percorso sceglieresti? Molto probabilmente, la scelta cadrebbe sul pascolo con le mansuete mucche, ritenendolo più sicuro e con meno rischio. 

Ma è davvero così?

Questo dilemma è al centro un recente studio intitolato “Roaring Bears vs. Mellow Cows: A Comparative Analysis of Risk Perception“. La ricerca, realizzata da Umana Analytics in collaborazione con associazioni locali e abitanti delle aree montane di Abruzzo, Molise e Lazio, ha coinvolto 223 partecipanti e utilizzato diversi strumenti, tra cui dei task comportamentali, per esplorare le percezioni del rischio nei confronti di orsi e mucche. 

Sebbene lo studio sia ancora in fase di elaborazione e di scrittura, i risultati sono molto interessanti e ci invitano a riconsiderare come valutiamo il pericolo e come queste valutazioni influenzano le nostre decisioni economiche e sociali, specialmente in contesti naturali come quelli delle catene montuose dell’Appennino centrale.

Infatti, in un territorio come l’Abruzzo, caratterizzato da grandi montagne e pascoli verdi, comprendere in modo accurato le dinamiche della percezione del rischio nei confronti di tali animali è fondamentale per informare le decisioni non solo a livello individuale, ma anche a livello di comunità.

Il paradosso della percezione: quando l’intuizione ci inganna

Nel nostro immaginario collettivo, l’orso rappresenta un simbolo di ferocia selvaggia, un predatore temibile che incute paura. Le sue zanne taglienti e i suoi potenti artigli sono spesso raffigurati come l’incarnazione stessa del pericolo naturale. D’altra parte, la mucca, con i suoi occhi grandi e il suo placido masticare, è l’emblema della docilità, un animale così familiare e apparentemente innocuo da essere quasi invisibile nel nostro calcolo dei rischi quotidiani. 

Eppure, le statistiche raccontano una storia molto diversa. 

In Italia, gli attacchi di orso registrati sono relativamente rari. Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA, 2021), tra il 2000 e il 2020 sono stati documentati solo 23 casi di interazione aggressiva tra orsi e umani, con un unico caso fatale nel 2014 in Trentino. D’altra parte, l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT, 2020) riporta che gli incidenti in ambito agricolo, inclusi quelli che coinvolgono animali da allevamento come le mucche, causano annualmente diverse vittime.

La Coldiretti, Organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo, ha evidenziato in un report del 2019 che in Italia vivono oltre 5,6 milioni di bovini (quasi 1 ogni 10 esseri umani); una presenza così massiccia aumenta significativamente la probabilità di interazioni uomo-animale rispetto agli incontri con specie selvatiche come l’orso. 

Per questo motivo, come confermato anche da uno studio condotto da Glikman et al. (2012) sulla percezione pubblica dei grandi carnivori in Italia, la paura degli orsi è spesso sproporzionata rispetto al rischio reale, influenzata più da fattori culturali e mediatici che da dati statistici (Human Dimensions of Wildlife).

Anche negli Stati Uniti, i dati risultano simili: con circa 25 casi complessivi tra il 2000 e il 2017, gli attacchi mortali di orsi sono significativamente meno frequenti delle morti causate da interazioni accidentali con mucche, in media circa 20 l’anno (Centers for Disease Control and Prevention [CDC], 2018).

In Gran Bretagna, allo stesso modo, le mucche rappresentano una causa significativa di decessi nell’agricoltura, superando persino i cani in alcune statistiche. Tra il 2019 e il 2023, infatti, le mucche hanno causato 22 morti in Inghilterra, Scozia e Galles, rispetto ai 16 decessi provocati dai cani in Inghilterra e Galles nello stesso periodo. Gli attacchi colpiscono sia i lavoratori agricoli che i passanti, in particolare escursionisti che attraversano sentieri pubblici. Oltre ai decessi, non mancano numerosi incidenti: dal 2015 al 2021 ne sono stati segnalati ben 257, ma alcuni esperti ritengono che molti non vengano riportati.

Perché ci sono così tanti incidenti, infortuni e persino decessi legati alle mucche? 

Prima di tutto, le mucche sono enormi: una mucca da latte nel Regno Unito pesa in media 620 kg. Anche un lieve urto può far cadere o schiacciare una persona. Inoltre, le mucche spesso non si rendono conto della loro grandezza e tendono a spostare chiunque si trovi sulla loro strada, specialmente quando si muovono in gruppo. Se una corre, è probabile che tutta la mandria la segua.

La presenza di cani, inoltre, aumenta il rischio di attacchi da parte delle mucche, poiché queste li percepiscono come una minaccia. Uno studio dell’Università di Liverpool del 2017, basato su 54 casi riportati dai media, ha rilevato che i cani erano presenti in due terzi degli incidenti e nel 94% dei casi fatali, anche se il campione è ridotto (University of Liverpool, 2017).

Questo dato, di per sé piuttosto sorprendente (o forse no), solleva una domanda fondamentale: perché la nostra percezione del rischio è così disconnessa dalla realtà statistica?

Per rispondere a questa domanda, i ricercatori di Umana Analytics hanno impiegato un arsenale di strumenti psicometrici e task comportamentali, per misurare l’ansia, la paura e la percezione del rischio nei confronti di orsi e mucche. L’obiettivo era quello di mappare non solo ciò che le persone ammettono apertamente di temere, ma anche le loro reazioni istintive e le associazioni inconsce. Uno dei risultati più sorprendenti che emerge è che contrariamente alle aspettative, i dati mostrano che l’orso non genera un livello di paura così elevato come si potrebbe pensare. In altre parole, a livello inconscio, non associamo l’orso al pericolo così fortemente come facciamo in modo consapevole e questo potrebbe indurci ad avere comportamenti “più a rischio”.

Figura 1. Risultati del Test IAT

Nota: Figura 1. Mostra i risultati dell’Implicit Association Test (IAT), ossia le preferenze implicite tra orsi e mucche con aggettivi NEGATIVI. Il grafico illustra vari livelli di associazione, da forte a leggera, con orsi (in blu) e mucche (in rosa), oltre a una categoria neutra di ‘nessuna preferenza’ (in verde). I valori indicano la forza relativa di ciascuna associazione.

Questo risultato è particolarmente intrigante perché mette in luce la complessità della nostra percezione del rischio e ci invita a fare delle riflessioni a riguardo. Da un lato, abbiamo le nostre risposte “alla luce del sole”, razionali e consapevoli, modellate dall’educazione, dalla cultura e dalle esperienze personali (Bortolotti et al., 2024). Dall’altro, ci sono le nostre reazioni istintive, quelle che sfuggono al controllo conscio e che spesso guidano le nostre decisioni in modo “sotterraneo”. La discrepanza tra questi due livelli di percezione del rischio apre una finestra affascinante sul funzionamento della mente umana e sulle implicazioni per le scienze comportamentali e per l’economia comportamentale. 

Se le nostre valutazioni consce del rischio non sempre si allineano con le nostre reazioni inconsce, come possiamo aspettarci di prendere decisioni veramente razionali in situazioni di incertezza?

Le radici evolutive della percezione del rischio

Per comprendere appieno questo paradosso, dobbiamo fare un passo indietro e considerare le radici evolutive della nostra percezione del rischio. I nostri antenati vivevano in un mondo dove la capacità di identificare rapidamente e reagire ai pericoli era letteralmente una questione di vita o di morte. In quel contesto, sovrastimare il rischio rappresentato da predatori come gli orsi era una strategia di sopravvivenza efficace. Era certamente meglio, in termini evolutivi, avere un falso allarme che perdere la vita per aver sottovalutato una minaccia.

Questo meccanismo di “meglio prevenire che curare” è profondamente radicato nel nostro cervello e continua a influenzare il nostro comportamento anche in contesti dove i pericoli sono molto diversi da quelli affrontati dai nostri antenati (Slovic, 1987). Il problema è che questo sistema, così efficace nell’ambiente ancestrale, può portare a distorsioni significative nella valutazione dei rischi nel mondo moderno. Nel caso degli orsi e delle mucche, la nostra eredità evolutiva ci predispone a temere di più il predatore raro e potenzialmente letale (l’orso) rispetto all’animale familiare e apparentemente innocuo (la mucca), anche quando le statistiche suggeriscono che dovremmo essere ben più cauti con quest’ultima. 

Questa discrepanza tra percezione istintiva e realtà statistica non è limitata al regno animale. Si manifesta in molti ambiti della nostra vita quotidiana e ha profonde implicazioni nel decision-making degli individui. Pensiamo, ad esempio, alla paura diffusa di volare rispetto alla relativa noncuranza con cui molte persone affrontano la guida quotidiana, nonostante le statistiche mostrino chiaramente che gli incidenti stradali siano una causa di morte molto più probabile rispetto agli incidenti aerei.

Il ruolo dei media e della cultura nella formazione delle percezioni

Un altro fattore cruciale che emerge dallo studio è l’elevata influenza dei media e della cultura nella formazione delle nostre percezioni del rischio (Kasperson et al., 1988). La rappresentazione degli orsi nei film, nei libri e nelle notizie tende a enfatizzare la loro natura feroce e pericolosa. Nel film “The Revenant” (2015), di Alejandro González Iñárritu (premiato con un oscar sia per la regia che per la magistrale interpretazione del protagonista Leonardo DiCaprio), uno dei momenti più celebri è proprio l’attacco brutale di un orso grizzly al protagonista. Sono numerosi i film di sopravvivenza dove l’orso è spesso ritratto come un antagonista implacabile, e anche piuttosto recenti le notizie sensazionalistiche che danno ampio risalto ai rari attacchi di orsi agli esseri umani. 

Le mucche, invece, raramente fanno notizia. 

Questa disparità di rappresentazione mediatica contribuisce a plasmare le nostre percezioni in modi che possono divergere significativamente dalla realtà statistica. Questa dinamica solleva questioni importanti sul ruolo dei media nella formazione delle percezioni pubbliche del rischio e, di conseguenza, nelle decisioni economiche e politiche. Se le nostre percezioni sono così fortemente influenzate da rappresentazioni mediatiche potenzialmente distorte, come possiamo aspettarci di fare scelte razionali in ambiti che vanno dagli investimenti finanziari alla politica ambientale?

L’economia comportamentale e la “irrazionalità prevedibile”

Il paradosso della percezione del rischio tra orsi e mucche si inserisce perfettamente nel quadro più ampio degli studi di economia comportamentale, un campo che sfida l’assunto tradizionale dell’homo economicus perfettamente razionale. Pionieri come Daniel Kahneman e Amos Tversky hanno dimostrato che le nostre decisioni economiche sono spesso guidate da euristiche e bias cognitivi che possono portare a scelte “irrazionali” ma prevedibili (Kahneman & Tversky, 1979). 

Questo fenomeno di percezione distorta del rischio tra orsi e mucche riflette come i bias cognitivi influenzino non solo le decisioni economiche, ma anche il modo in cui valutiamo i pericoli nella vita quotidiana. Proprio come nelle scelte economiche, anche nel percepire i rischi associati agli animali entrano in gioco meccanismi mentali che ci portano a conclusioni inattese.

Nel caso specifico dello studio svolto, possiamo identificare un paio di bias cognitivi in azione:

L’ Euristica della disponibilità: Tendenza a sovrastimare la probabilità di eventi che si possono più facilmente richiamare alla mente. Gli attacchi di orsi, sebbene rari, sono memorabili e spesso riportati dai media, rendendoli più “disponibili” nella nostra memoria rispetto agli incidenti con le mucche.

Il Bias di conferma: Una volta formata l’opinione sulla pericolosità degli orsi, si tende a cercare informazioni che confermino questa credenza, ignorando o sminuendo le prove contrarie.

In un’era caratterizzata da un flusso costante di informazioni, la percezione del rischio è inevitabilmente influenzata da ciò a cui scegliamo (o siamo portati) a prestare attenzione. L’economia dell’attenzione, un concetto introdotto dall’economista Herbert Simon, diventa quindi cruciale per comprendere come si formano le nostre percezioni del rischio (Simon, 1971).

Nel contesto dello studio qui presentato, ad esempio, possiamo osservare come l’attenzione mediatica sproporzionata dedicata agli attacchi di orsi possa contribuire a distorcere la percezione “cosciente” del rischio. Inoltre, le storie di attacchi di orsi, anche se rare, tendono a essere molto più memorabili e impattanti di statistiche aride sugli incidenti con il bestiame, evidenziando il ruolo cruciale della narrazione nell’economia comportamentale e nella comunicazione del rischio (Sunstein, 2002).

Le narrazioni non sono solo un modo per trasmettere informazioni, ma sono strumenti potenti per dare senso al mondo che ci circonda. Esse possono influenzare profondamente il modo in cui percepiamo e reagiamo ai rischi. Nel contesto degli orsi e delle mucche, sono diverse le narrazioni che influenzano le nostre percezioni: dalla narrazione dell’orso feroce a quella della mucca docile, dalla narrazione ecologica a quella della sicurezza agricola. Comprendere il potere di queste narrazioni e imparare a utilizzarle in modo efficace può essere cruciale per influenzare le percezioni del rischio e, di conseguenza, il comportamento economico.

Come abbiamo visto, questi bias cognitivi non sono semplici curiosità psicologiche, ma hanno implicazioni reali e significative per l’economia e la politica. Pensiamo, ad esempio, alle decisioni di investimento: la tendenza a sovrastimare rischi rari ma memorabili (come i crolli di mercato) può portare gli investitori a essere eccessivamente cauti, rinunciando a opportunità di guadagno a lungo termine in favore di opzioni percepite come più sicure ma meno redditizie. Allo stesso modo, nel contesto della gestione della fauna selvatica, la percezione distorta del rischio rappresentato dagli orsi potrebbe portare a politiche di conservazione eccessivamente restrittive, con conseguenze negative non solo per le popolazioni di orsi ma anche per l’intero ecosistema e l’economia locale basata sull’ecoturismo.

L’impatto economico delle percezioni distorte

Le percezioni distorte del rischio non sono solo un fenomeno psicologico interessante; hanno conseguenze economiche tangibili e spesso significative. Il nostro caso studio sul confronto della percezione del rischio tra orsi e mucche, ci aiuta ad identificare vari domini nei quali le percezioni distorte possono avere un’influenza a livello economico.

Nel settore del turismo, la paura eccessiva degli orsi può scoraggiare i visitatori in aree che ospitano questi animali, privando le comunità locali di una potenziale fonte di reddito. D’altra parte, una percezione più equilibrata potrebbe promuovere un ecoturismo responsabile, creando opportunità economiche sostenibili. 

Il mercato immobiliare non è esente da questi effetti. Le proprietà in aree percepite come “a rischio” di attacchi di orsi potrebbero subire una svalutazione, con un impatto significativo sulla ricchezza delle comunità locali, nonostante il rischio reale sia minimo. Quantificare questi impatti economici è una sfida complessa ma essenziale. Richiede l’integrazione di dati da diverse fonti, tra cui statistiche turistiche, valori immobiliari, bilanci pubblici, dati assicurativi e indicatori di produttività agricola. Inoltre, è necessario sviluppare modelli econometrici sofisticati che possano isolare l’effetto delle percezioni del rischio da altri fattori che influenzano questi risultati economici (Viscusi & Aldy, 2003).

Ma tradurre le intuizioni dello studio in politiche efficaci, oltre a presentare dei vantaggi, propone anche una serie di sfide. Una delle più significative è forse il “paradosso della prevenzione“: se le misure preventive sono efficaci nel ridurre gli incidenti (sia con orsi che con mucche), il pubblico potrebbe percepire il rischio come ancora più basso di quanto non sia in realtà, potenzialmente portando a comportamenti più rischiosi. 

Inoltre, c’è la questione della resistenza culturale. Le percezioni del rischio sono profondamente radicate nella cultura e nell’identità di una comunità. Cambiare queste percezioni richiede non solo educazione e informazione, ma anche un approccio sensibile alle tradizioni e ai valori locali. 

Un’ulteriore sfida è la natura dinamica delle percezioni del rischio. Queste possono cambiare rapidamente in risposta a eventi drammatici o a cambiamenti nella copertura mediatica (stigma verso una figura come l’orso). Le politiche devono quindi essere flessibili e adattive, capaci di rispondere a questi cambiamenti senza perdere di vista il quadro generale basato sui dati.

Il ruolo delle emozioni nella percezione del rischio

Le emozioni svolgono un ruolo cruciale nella percezione del rischio: non sono semplicemente un “rumore di fondo” che distorce il nostro giudizio razionale, ma una componente intrinseca e spesso adattiva del nostro sistema decisionale (Loewenstein et al., 2001). Nel caso degli orsi e delle mucche, le emozioni svolgono un ruolo particolarmente interessante. La paura istintiva che molti provano al pensiero di un incontro con un orso non è semplicemente una reazione poco razionale, ma il risultato di millenni di evoluzione durante i quali una sana dose di paura nei confronti dei predatori era fondamentale per la sopravvivenza.

Questa paura, anche se oggi può sembrare eccessiva in relazione al rischio statistico, ha svolto un ruolo cruciale nella nostra storia evolutiva. D’altra parte, la relativa mancanza di timore nei confronti delle mucche può essere vista come il risultato di millenni di domesticazione e convivenza pacifica. Le emozioni positive associate alle mucche – forse un senso di calma o addirittura di affetto – possono portare a una sottovalutazione dei rischi reali associati a questi animali di grandi dimensioni. 

Questo intreccio di emozioni e cognizione nella percezione del rischio solleva domande interessanti per l’economia comportamentale. Come possiamo integrare le emozioni nei modelli di decisione economica? I modelli tradizionali di utilità attesa spesso trascurano il ruolo delle emozioni, ma è chiaro che queste giocano un ruolo cruciale nelle nostre decisioni, soprattutto in situazioni di incertezza.

Il paradosso della familiarità

Un aspetto interessante emerso dallo studio è quello che potremmo chiamare il “paradosso della familiarità”. La familiarità con un rischio può portare a due risultati apparentemente contraddittori: da un lato, può ridurre la paura irrazionale attraverso l’esposizione ripetuta e la comprensione; dall’altro, può portare a una pericolosa sottovalutazione del rischio attraverso l’abitudine e la desensibilizzazione (Slovic et al., 2004). Nel caso delle mucche, la loro presenza quotidiana nella vita rurale ha portato a una sorta di “cecità al rischio”.

Le persone che lavorano regolarmente con il bestiame possono sviluppare un senso di confidenza che, paradossalmente, può aumentare il rischio di incidenti. Questo fenomeno non è unico all’agricoltura; è riscontrabile in molti settori dove i lavoratori esperti possono diventare troppo sicuri di sé e trascurare le precauzioni di sicurezza di base.

D’altra parte, la rarità degli incontri con gli orsi mantiene vivo un senso di cautela che, sebbene possa essere sproporzionato rispetto al rischio reale, serve comunque a mantenere le persone vigili e preparate. Questo paradosso della familiarità ha implicazioni significative per la gestione del rischio in vari settori economici, dalla sicurezza sul lavoro agli investimenti finanziari, dalla sicurezza stradale alla gestione delle catastrofi.

L’economia comportamentale e la gestione sostenibile della fauna selvatica

Lo studio qui presentato ha implicazioni dirette per la gestione sostenibile della fauna selvatica, un campo che sta diventando sempre più rilevante nel contesto del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità. Riteniamo che l’economia comportamentale possa offrire intuizioni preziose su come bilanciare le esigenze di conservazione con le preoccupazioni delle comunità locali (Thaler & Sunstein, 2008). Tra gli aspetti da considerare vi sono gli incentivi economici per la coesistenza, l’applicazione delle ormai note “spinte gentili” (nudges) per influenzare il comportamento umano, il framing della conservazione, l’effetto dotazione applicato alla fauna selvatica e il bias di status quo nelle politiche di conservazione.

Conclusioni e riflessioni finali

Lo studio sulla percezione del rischio, visto attraverso la lente dei due animali, ci ha portato ben oltre le montagne e i pascoli dell’Italia centrale. Ci ha condotto in un territorio di riflessione profonda sulla natura della mente umana, sulla complessità dei nostri sistemi sociali ed economici, e sulle sfide che ci attendono in un mondo in rapido cambiamento. Se è vero che la comprensione di come le percezioni del rischio influenzano il comportamento economico è cruciale per sviluppare politiche efficaci e sostenibili, allora questo studio apre nuove strade per la ricerca interdisciplinare, combinando intuizioni dell’economia comportamentale, della psicologia cognitiva, delle scienze della comunicazione e anche dell’ecologia. 

Mentre procediamo nel nostro cammino, che questo studio serva come promemoria della complessità e della meraviglia del comportamento umano, e come invito a continuare a esplorare, a questionare le nostre assunzioni, e a cercare una comprensione sempre più profonda di noi stessi e del mondo che ci circonda. Perché è in questa ricerca continua che risiede la vera essenza del progresso umano e della gestione efficace dei rischi in un mondo sempre più complesso e interconnesso.


✅ Revisione a cura di: Francesca Bellante, Serena Iacobucci
✅ Editing a cura di: Sara Ferracci

Riferimenti bibliografici

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Bortolotti, A., Conti, A., Romagnoli, A., & Sacco, P. L. (2024). Imagination vs. routines: festive time, weekly time, and the predictive brain. Frontiers in Human Neuroscience, 18, 1357354.

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Autori e Autrici

Alessandro Bortolotti è psicologo e PhD in Business & Behavioral Sciences. Esperto in processi cognitivi, Alessandro si occupa di sviluppare un progetto di ricerca sulla percezione del colore nel marketing e nelle decisioni d’acquisto.


Roberta De Cicco, editor e contributor del blog economiacomportamentale.it, ha un dottorato di ricerca in Business & Behavioural Sciences ed è ricercatrice e docente presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Studi Umanistici e Internazionali dell’Università degli Studi di Urbino e presso la Católica Porto Business School.


Stefano Anzani è PhD in Business & Behavioral Sciences e ricercatore presso Umana Analytics. Le sue mansioni principali riguardano le people analytics e lo sviluppo di nuove tecnologie per la ricerca applicata.

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