di Roberta De Cicco e Serena Iacobucci
Prima di iniziare – anche se il titolo di questo articolo ti avrà già influenzato in maniera notevole – ti chiediamo di pensare a come rendere le due metà di questo quadrato esattamente simmetriche, in modo tale che piegando il quadrato a metà in modo tale da sovrapporle, i quadrati bianchi ed i quadrati grigi combacino. La sfida consiste nel farlo con le minori mosse possibili.

Abbandoniamo il nostro quadrato (per ora) e voliamo in California.
Se, proprio come noi, ami la città di San Francisco, probabilmente sogni di svegliarti la mattina e fare jogging (o colazione e shopping…) sul lungomare dell’Embarcadero dal quale è possibile osservare gli storici moli oppure il profilo delle (circa) cinquanta colline snodarsi all’orizzonte, interrotti solo da qualche fila di palme.
Probabilmente quello che non sai (anche in questo caso, proprio come noi, prima di leggere “Subtract: The Untapped Science of Less”) è che per rendere il lungomare dell’Embarcadero la meraviglia urbanistica che è oggi – ci sono voluti… un terremoto e la caparbietà di una commissaria della San Francisco Planning Commission, Sue Bierman. Prima di diventare la principale attrazione della città, la via che oggi costituisce l’Embarcadero era solcata da un’autostrada sopraelevata a due piani (la State Route 480, spesso chiamata “Embarcadero Freeway”), costruita dopo la Seconda Guerra Mondiale grazie ai massicci finanziamenti federali e alla necessità di spostare mezzi militari e civili. Per decenni, l’autostrada ha collegato vari punti della città bloccando però la bellissima vista e l’accesso alla baia di San Francisco. Un gruppo di cittadini e cittadine – apostrofato dai sostenitori dell’autostrada come “gruppo di piccole casalinghe annoiate” – iniziarono a protestare contro la presenza dell’autostrada, chiedendosi se non stesse effettivamente causando più danni che benefici alla città. Ma un conto era dibattere e chiedersi se costruire l’autostrada fosse stata o meno una buona idea. Ben più difficile era trasformare le parole in fatti e decidere se buttar giù una struttura così imponente. Per fortuna – affermano gli autori – a volte capita che a prendere le decisioni ci siano persone come Sue Bierman.
Bierman – giovane studentessa di successo e lettrice vorace – si fa notare per la sua perspicace determinazione come attivista di quartiere e – nel 1976 – diventa membro della Commissione di pianificazione di San Francisco. L’attività di Bierman è meticolosa: studia l’impatto dell’autostrada Embarcadero sotto numerosi punti di vista ed esamina un’infinità di metriche. Non ne fa – quindi – una sola questione di velocizzare il traffico, ma si chiede “Quanti clienti ha portato o sta portando alle attività commerciali della baia? In che modo sta peggiorando – o migliorando – la qualità della vita dei quartieri che collega e dei quartieri che attraversa?” È solo nel 1985 che Bierman – insieme alla commissione – riesce a terminare e presentare il piano finale per le sorti dell’Embarcadero. Dati alla mano, la migliore opzione è una sola: abbatterla. Tuttavia, la proposta di Bierman e colleghi si scontra con la realtà della città: dalla paura di congestionare il traffico fino al timore dei commercianti di perdere potenziali clienti, il tutto ovviamente unito al timore del cambiamento. Il progetto di abbattere l’Embarcadero viene bloccato dai cittadini di San Francisco – con una schiacciante maggioranza. Se non fosse stato per i danni provocati dal terremoto di Loma Prieta – il più disastroso terremoto della storia degli Stati Uniti – l’autostrada sarebbe ancora lì. Invece, il terremoto cambiò drasticamente le basi per il calcolo dei costi/benefici relativi alla rimozione dell’autostrada, che a causa del sisma era diventato praticamente inutilizzabile. Inoltre, il terremoto aveva dimostrato quanto fosse pericoloso avere una struttura sopraelevata in un’area a così grande rischio sismico (l’Embarcadero resistette alla scossa, ma una struttura simile – il Cypress Street Viaduct – crollò causando la morte di 42 persone). Nonostante tutto, anche in questo scenario post-apocalittico, qualcuno pensò che la soluzione potesse essere ricostruire l’Embarcadero o ripararlo piuttosto che demolirlo. Finalmente, nel 1991, iniziarono i lavori per la sua demolizione. Dopo appena 10 anni dalla rimozione dell’Embarcadero, i turisti si riappropriarono del lungomare di San Francisco: il mercato immobiliare si impennò, i posti di lavoro legati alle attività praticate sul lungomare aumentarono del 15% e l’area superò tutte altre zone della città in termini di tassi di crescita e sviluppo. Demolire l’autostrada – d’altro canto – non causò alcuna congestione in termini di traffico: al contrario: i percorsi vennero ricalcolati, le persone inventarono nuovi modi di vivere la mobilità cittadina e la riva orientale della città di San Francisco riacquisì una nuova, iconica identità.
La storia di Sue Birman è una storia di intuizione legata alla sottrazione: la mente di Sue vede il cambiamento in un’opportunità che nessun altro nella città di San Francisco aveva saputo cogliere, tant’è che – a causa dell’opposizione sia politica che plebiscitaria – fu possibile metterla in pratica solo con l’intervento di un tristissimo e devastante evento naturale.
Pensiamo al nostro quadrato di poco fa: esistono due soluzioni per rendere le due griglie esattamente simmetriche. Una è quella di rendere grigie le caselle mancanti nel lato sinistro. Questo richiede 4 mosse. La seconda opzione richiede a sua volta 4 mosse – ed è quella di rimuovere le caselle grigie in eccesso sul lato destro. Tuttavia, solo il 20% dei partecipanti a questo esperimento pensa all’opzione che prevede la sottrazione dei blocchi grigi dal lato destro. In questo caso – starai pensando – non fa comunque alcuna differenza: se l’obiettivo è quello di svolgere il compito con meno mosse possibili, il processo è indifferente.
Tuttavia, anche in griglie appositamente strutturate per far sì che l’opzione che prevede la sottrazione sia la più conveniente – perché prevede, ad esempio, l’eliminazione di soli due blocchi grigi sul lato destri contro l’addizione di quattro blocchi grigi sul lato sinistro – i partecipanti continuano ad aggiungere come scelta di default.
Ma a cosa è dovuta questa cecità alla sottrazione?
Partiamo da Less is More…
“Less is more” è una celebre affermazione dell’architetto e designer tedesco Ludwig Mies van der Rohe che viene solitamente tradotta in italiano come “meno è più” ma anche con “meno è meglio”.
Benché questo concetto affondi le sue radici nell’architettura e nel design industriale moderno – di cui lo stesso van der Rohe fu uno degli eccellenti maestri insieme, tra gli altri, a Le Corbusier e Frank Lloyd Wright – piano piano il concetto di “less is more” si è trasformato in una vera e propria filosofia di vita che supera i confini del design, per arrivare ad assumere addirittura un valore terapeutico.
Qualcuno afferma che quello del moderno minimalismo (più o meno estremo) sia un nuovo trend passeggero, accelerato – tra altri fattori sociali e culturali – dalla forte presa che riesce ad offrire a livello estetico su social come Instagram e Pinterest, nonché dalla curiosa attenzione che colossi come Netflix e YouTube dedicano a coach del riordino e della frugalità negli ambiti più disparati. Alzi la mano chi non ha mai visto un Guru di YouTube rivelare di aver risolto i propri problemi di tempo nella preparazione mattutina decidendo di vestirsi sempre allo stesso modo. La decisione di non decidere riducendo le opzioni permette di ridurre l’affaticamento decisionale (il deterioramento della qualità delle decisioni prese dopo una lunga sessione di decisioni) e rispetto ad altre soluzioni più complesse (ad esempio, quella di preparare a priori 7 diversi outfit settimanali) è sicuramente la più vicina alla filosofia del less is more.
Non sta a noi, con questo articolo, valutare se la filosofia del “less is more” sia una moda o una bolla: ci interessa porre l’attenzione sulla legittima presa di coscienza della necessità di occuparsi di poche cose, ma farlo bene, con un chiaro obiettivo in mente e della difficoltà che tuttavia riscontriamo – in quanto esseri irrazionali – quando veniamo posti davanti alla possibilità di risolvere un problema sottraendo.
Quante volte, infatti, nei tuoi buoni propositi hai iniziato una frase con “Dovrei fare più…” invece di “Dovrei farò meno…”?
Secondo l’intuizione gli autori degli studi sulla psicologia della sottrazione che illustreremo tra poco – però – il “less is more” va superato per entrare nel vivo della “psicologia della sottrazione”.
Il “meno è meglio” infatti, si limiterebbe a denotare uno stato di semplicità o di eleganza più estetica e formale che di processo (dopotutto, era proprio quello il suo obiettivo iniziale, dati gli ambiti d’uso nei quali è stato ideato).
Sottrarre è un’azione. “Meno” è invece il risultato finale e – sebbene la sottrazione sia l’atto di arrivare a quel “meno” – non equivale a “fare meno”. In effetti, arrivare a “meno” spesso significa fare, o almeno pensare, di più.
Svuotare i nostri armadi dagli abiti che non “trasmettono gioia” (cit.) è l’azione di sottrarre che ci conduce ad avere meno (disordine, oggetti, scelte inutili), ed è certamente un’attività molto dispendiosa.
Rimuovere l’Embarcadero Highway è molto più impegnativo che lasciarla lì dov’è (o non costruirla affatto).
Sottrarre: perché il nostro cervello – di default – tende ad aggiungere?
È chiaro fin qui che noi esseri umani – messi davanti alla necessità di ricercare possibili soluzioni per migliorare un prodotto o un processo – elaboriamo sistematicamente trasformazioni additive e trascuriamo invece quelle sottrattive.
In poche parole, se ci troviamo davanti ad un artefatto da migliorare – sia esso un prodotto o processo – siamo naturalmente inclini ad aggiungere delle componenti piuttosto che rimuoverle , attuando quella che in letteratura viene definita come “trasformazione additiva”. Questa tipologia di trasformazione viene preferita alla sua controparte, ossia la “trasformazione sottrattiva” anche quando quest’ultima risulta essere la soluzione migliore. Sembrerebbe, insomma, che anni di Marie Kondo su Netflix non ci abbiano ancora insegnato molto sulla necessità di ridurre per migliorare le nostre scelte.
Ma perché ciò accade?
Facciamo un passo indietro.
Quello di Klotz e colleghi è filone di ricerca piuttosto recente, che ha visto per la prima volta un grande riscontro da parte del pubblico e della comunità scientifica dopo la pubblicazione su Nature dello studio intitolato “People systematically overlook subtractive changes” nell’aprile 2021.
Una ricerca decisamente importante non solo per la portata dei risultati (in varie interviste Klotz, che non è uno psicologo bensì un ingegnere, racconta di voler sfruttare questi risultati per portare più scienze comportamentali nel mondo del design con lo scopo di migliorare le scelte in vari settori, come quello delle energie rinnovabili) ma anche per la mole di dati raccolti e l’accuratezza e la complessità dei ben 8 studi che la compongono.
Come afferma sempre Klotz nel libro (che racconta gli studi in maniera molto narrativa e dettagliata, senza tuttavia sacrificare gli approfondimenti scientifici o l’accuratezza che si riscontra nel paper), l’idea è nata mentre costruiva un ponte in Lego con il proprio figlio. Il ponte era sbilanciato, perché le due torri erano di altezze diverse. L’impulso di Klotz fu quello di girarsi a cercare un mattoncino in più, ma nel frattempo il figlio aveva già compensato la differenza d’altezza eliminando un blocco dalla torre più alta.
Questa semplice intuizione ha portato quindi lo scienziato ad interrogarsi su quello che qualcuno ha già definito il “bias dell’addizione” – confrontandosi con gli scienziati e le scienziate che poi diventeranno i coautori e le coautrici di questa serie di studi – e chiedendosi se questo fenomeno fosse specifico nel gioco dei Lego oppure qualcosa di più sistematico.
Ad esempio, Klots riporta una serie di pre-test durante i quali ai partecipanti veniva chiesto di migliorare un pezzo musicale, un saggio oppure una ricetta che in partenza era composta da 5 ingredienti. Questi compiti hanno dimostrato che la tendenza ad aggiungere anziché a sottrarre non è riscontrabile solo nel caso specifico del Lego: circa 2/3 dei partecipanti continuavano ad aggiungere note, allungare i saggi e aggiungere ingredienti alla ricetta – nonostante fosse più costoso. Tuttavia, i ricercatori e le ricercatrici avevano un dubbio legato alle attività selezionate per questi compiti nello specifico: trattandosi di attività a forte connotazione edonica – che spesso vengono svolte proprio per il piacere stesso di godersi il processo, come suonare uno strumento o cucinare. Era chiaro che, per controllare tutti questi fattori, sarebbe servito un approccio sperimentale.
L’articolo scientifico nasce quindi dall’esigenza di indagare se le persone siano più propense a considerare i cambiamenti che sottraggono elementi (da un oggetto, un’idea o una situazione) o se siano più propense a considerare invece cambiamenti che aggiungono degli elementi, al netto di una serie di fattori che non era stato possibile osservare in maniera controllata nei pre-test che hanno portato gli autori e le autrici ad interessarsi al fenomeno.
Nella prima parte della ricerca, gli studiosi hanno applicato il metodo osservativo, studiando e registrando il flusso spontaneo dei comportamenti senza alcuna manipolazione ed in condizioni non controllate.
In questa prima raccolta di informazioni, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di modificare una serie di schemi posti su una griglia digitale con l’obiettivo di rendere tali schemi simmetrici (proprio come nel gioco che abbiamo fatto poco fa).
I partecipanti potevano colorare qualsiasi casella nella griglia semplicemente cliccando su di essa.
Sebbene lo sforzo per sottrarre caselle colorate o aggiungerne fosse esattamente lo stesso, solo il 20% dei partecipanti ha preferito il processo di sottrazione – come abbiamo già detto.
In una seconda osservazione, i ricercatori hanno esaminato una serie di proposte di miglioramento nei confronti di un’università americana. Delle 651 proposte codificate come additive o sottrattive, solo 70 (11%) sono risultate essere di tipo “sottrattivo”.
Le osservazioni non si esauriscono qui. I ricercatori hanno infatti trovato tassi di sottrazione significativamente bassi anche tra i partecipanti che sono stati invitati a modificare strutture a blocchi, saggi e persino itinerari.
Un altro controllo interessante, racconta l’autore nel libro, è legato ad una critica all’uso delle griglie: come potete essere sicuri che toccare le griglie grigie significa “toglierle”? Qualcuno potrebbe aver percepito di star “aggiungendo” luminosità negli spazi bianchi. Quella che potrà sembrare una leggerissima sfumatura di significato – che potrebbe andare contro ogni logica o senso comune per molti – è in realtà un’obiezione legittima. Gli autori hanno quindi chiesto in fase di debriefing ai partecipanti di indicare quale fosse stato il proprio approccio, esplicitando le scelte compiute con frasi come “ho aggiunto quadrati grigi finché la figura non è diventata simmetrica” oppure “ho tolto quadrati grigi finché la figura non è diventata simmetrica”. Questo fugava ogni dubbio ed eliminava l’ambiguità concettuale legata al compito.
Nella seconda parte della ricerca, gli studiosi hanno applicato il metodo sperimentale (sia online che in laboratorio), che, come sappiamo, consente di esaminare le possibili relazioni di causa-effetto di un fenomeno. Ricordiamo che questo approccio alla ricerca, che si basa su metodi controllati e assegnazione casuale, prevede la manipolazione di una o più variabili (indipendenti) per determinare se le modifiche effettuate causano cambiamenti in un’altra variabile o più variabili (dipendenti) e se, quindi, le ipotesi sono verificata.
Anche nella parte di studi sperimentali che ha seguito quella osservazionale, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di modificare una situazione iniziale sia essa un oggetto, un’idea o una situazione. Questa volta però gli autori sono intervenuti con delle manipolazioni (confrontate rispetto a una situazione di controllo, che per semplificare potremmo definire “neutrale”) per elicitare nei partecipanti delle possibili trasformazioni sottrattive.
Nello specifico i primi tre esperimenti si sono focalizzati sul problem-solving.
Nel primo esperimento è stato chiesto ai partecipanti di stabilizzare una struttura lego per far sì che un pupazzetto potesse essere poggiato sopra di essa senza il rischio di cadere. Ovviamente i partecipanti di questo ingegnoso compito (che sono stati divisi casualmente in due gruppi: manipolazione e controllo) avrebbero ricevuto una ricompensa qualora avessero raggiunto l’obiettivo. Tuttavia, nella condizione manipolata, a 99 partecipanti è stato esplicitamente detto che aggiungere dei mattoncini aveva un costo che sarebbe stato sottratto dalla loro ricompensa, mentre sottrarre mattoncini non aveva alcun costo; ai 98 soggetti della condizione di controllo invece non è stato fatto alcun riferimento sulla gratuità del togliere mattoncini, ma solo al costo dell’aggiungerne.
Il risultato? Nella condizione di controllo il 41% dei partecipanti ha eliminato mattoncini e quindi prodotto una trasformazione sottrattiva; al contrario, nella condizione in cui la possibilità di sottrazione è stata stimolata attraverso un’apposita manipolazione delle informazioni, il 61% dei partecipanti ha prodotto questa trasformazione. Il che dimostra come, in assenza di una, se vogliamo, “spinta gentile” le persone tendono sistematicamente a sottovalutare il vantaggio di una trasformazione sottrattiva.
I due esperimenti a seguire, che vedevano i partecipanti alle prese con dei possibili miglioramenti applicabili ad un campo da minigolf virtuale, hanno confermato questo bias in assenza di quelle che vengono definite dagli autori “subtraction cues” (in italiano definibili come stimoli sottrattivi). Quando ai partecipanti veniva esplicitato che avrebbero potuto tanto aggiungere elementi nel campo, quanto toglierne, la lista con le idee di miglioramento conteneva un maggior numero di idee sottrattive, confermando pertanto che lo stimolo ha portato i partecipanti a vagliare un maggior numero di ipotesi, incluse quelle sottrattive, che altrimenti sarebbero state ignorate o sottovalutate.
Il quarto esperimento invece, seppur nello stesso contesto (campo da minigolf virtuale), ha previsto oltre che lo stimolo sottrattivo anche un diverso obiettivo. Questa volta, in un caso, l’obiettivo consisteva nel migliorare il campo, nell’ altro peggiorarlo. La mancanza di differenze nei risultati degli stimoli tra le condizioni con diversi obiettivi (in entrambi i casi, lo stimolo migliora la capacità di processare e proporre soluzioni sottrattive) dimostra come questo bias nei confronti della sottrazione non sia legato agli obiettivi da raggiungere e tanto meno ad associazioni tra categorie linguistiche quali ad esempio “più” e “meglio”, ma possa essere a tutti gli effetti considerato pervasivo e quindi diffondersi in modo omogeneo.
Se nei primi quattro esperimenti sono state manipolate informazioni relative al compito da svolgere, nei successivi esperimenti, i ricercatori hanno manipolato le condizioni del compito (più favorevoli o meno favorevoli) per dare la possibilità ai partecipanti di andare oltre una mera ricerca euristica e implementare invece idee sottrattive per conto proprio e per loro iniziativa.
Nel quinto esperimento, ai partecipanti è stata presentata una griglia digitale 10 x 10 con dei riquadri bianchi e verdi (quindi uno stimolo in cui i singoli componenti non hanno alcun valore intrinseco). I partecipanti potevano cliccare su qualsiasi casella per alterarne il colore con l’obiettivo di rendere la griglia simmetrica da sinistra a destra e dall’alto verso il basso usando il minor numero di clic.
La figura che segue illustra i quadranti e le relative griglie, rendendo più chiara la comprensione del compito svolto.
Come si deduce dall’immagine, i partecipanti potevano ottenere la simmetria aggiungendo o sottraendo dei quadratini dalle griglie. Il che si avvicina molto a quanto era stato fatto nel primo studio osservazionale, tuttavia in questo caso, trattandosi di un esperimento, sono stati creati due scenari diversi.
Nella condizione di controllo, i partecipanti procedevano immediatamente al compito. Nella condizione sperimentale invece questi hanno prima effettuato dei trial, ossia delle prove, per poi passare al compito effettivo. La possibilità di “fare pratica”, e quindi poter fare delle considerazioni e imparare dai propri errori, ha permesso ai partecipanti casualmente assegnati a questa condizione di comprendere i limiti dell’approccio additivo e di rendere le figure simmetriche attraverso la sottrazione dei quadratini. Come previsto, se il 49% dei partecipanti ha applicato una soluzione sottrattiva nella condizione di controllo, nella condizione sperimentale la percentuale è salita significativamente al 63%.
L’importanza di questo esperimento sta nel fatto di aver dimostrato che i partecipanti avevano maggiori probabilità di applicare una trasformazione sottrattiva quando veniva data loro la possibilità di riconoscere autonomamente i limiti di un approccio additivo in questo compito e quindi di ricorrere ad una sorta di metacognizione capace di orchestrare i propri processi cognitivi in relazione alle informazioni passate al setaccio.
Nei tre esperimenti finali, i ricercatori hanno poi indagato se la scelta di un approccio sottrattivo potesse dipendere dal carico cognitivo. Il “cognitive load”, termine inglese che sta ad indicare il carico cognitivo è definito in psicologia cognitiva come il carico di lavoro mentale necessario per l’esecuzione di un compito in termini di utilizzo della memoria di lavoro (working memory). Si noti che in letteratura, all’aumentare del carico cognitivo, aumenta, di norma, anche la probabilità di fare ricorso alle scorciatoie cognitive.
In questo caso, i partecipanti hanno completato delle prove (senza trial questa volta), ma in condizioni di carico cognitivo diverse, in una versione adattata dell’esperimento numero cinque (griglia con quadranti).
Per indurre un maggiore carico cognitivo, nell’esperimento numero sei si è fatto ricorso ad un compito fisico, ovvero a dei movimenti circolari della testa, mentre negli esperimenti sette e otto ad un compito intellettuale, ossia di ricerca e verifica di alcune cifre che apparivano sullo schermo.
La metanalisi dei risultati di questi tre studi ha dimostrato che, nella condizione di carico cognitivo maggiore, i partecipanti non sono riusciti ad identificare la sottrazione (togliere quadratini colorati) come la migliore soluzione. Al contrario, quando i partecipanti avevano più risorse attenzionali disponibili avevano, invece, più probabilità di identificare la trasformazione sottrattiva come la soluzione migliore.
Riassumendo. In tutti gli otto studi (sia osservazionali che sperimentali), quando il compito non spingeva in qualche modo i soggetti a considerare la sottrazione come possibile opzione e quando questi erano sottoposti ad un più alto carico cognitivo, i partecipanti (in media) mostravano sistematicamente una ridotta capacità di elaborare meccanismi sottrattivi e quindi di pensare alla sottrazione come ad una possibile opzione valida per raggiungere lo scopo.
I risultati di questa ricerca aprono a delle importanti considerazioni.
Da un lato si potrebbe pensare che le persone semplicemente trascurino se non ignorino del tutto le idee sottrattive.
D’altro canto, le persone potrebbero riuscire a contemplare entrambe le soluzioni (additive e sottrattive) per poi selezionare tuttavia quella che nella loro memoria è più accessibile, probabilmente perché più volte attuata. Difatti, quanto più frequentemente gli individui fanno ricorso a una strategia di ricerca additiva percependone la bontà, tanto più accessibile a livello cognitivo sarà per loro questa strategia. Come già sappiamo, in molti campi del decision-making, le persone si affidano a scorciatoie mentali facili e veloci, specialmente quando elevati carichi cognitivi rendono più difficile la ricerca di approcci più ponderati e personalizzati o in assenza di informazioni che indichino in maniera più esplicita eventuali strategie alternative.
Secondo gli autori di questa ambiziosa ricerca, la nostra “memoria euristica” può sì aiutarci ad accedere in modo efficiente a molte informazioni giuste al momento giusto, ma se applicata in modo eccessivo e poco oculato, può anche portarci ad accontentarci di soluzioni adeguate e a non considerare e selezionare delle alternative potenzialmente superiori.
Esistono delle ragioni cognitive, culturali e socio-ecologiche che possono spiegare questo nostro comportamento e quindi il privilegio che spesso riserviamo ai cambiamenti additivi rispetto a quelli sottrattivi. Da un punto di vista prettamente cognitivo, i cambiamenti additivi possono essere più facili da elaborare. Qualsiasi componente, per essere sottratto deve prima essere compreso come parte del tutto per poter poi essere considerato come “non” parte. Dal punto di vista culturale, specie in seguito al boom economico e alla nascita società dei consumi, secondo cui l’acquisizione e l’esibizione di risorse migliora il proprio stato sociale, il “più” è stato assimilato in misura maggiore a concetti quali “positivo” e “migliore”, attribuendone inevitabilmente una valenza positiva e rendendo le persone più riluttanti a rinunciare a dei beni (e a sottrarre) a causa di processi attenzionali e valutativi che favoriscono proprio lo status quo.
A conclusione di questo articoli una riflessione, quasi profetica, degli autori della ricerca:
“Se gli esseri umani continueranno a limitarsi a cercare soluzioni adeguate e a sottovalutare alternative superiori, che spesso includono proprio le scelte sottrattive, non faranno che perdere l’opportunità di rendere la propria vita più soddisfacente, le istituzioni più efficaci e il pianeta più vivibile”.
Vuoi ricevere altri contenuti come questo direttamente nella tua mail?
Iscriviti al form in basso, ti manderemo un articolo al mese – fresco di editing – e non una mail in più.
Bibliografia
Klotz, L. (2021). Subtract: The untapped science of less. Flatiron Books.
Le autrici
Roberta De Cicco, editor e contributor del blog EconomiaComportamentale.it, ha un dottorato di ricerca in Business & Behavioural Sciences ed è cultrice della materia in Economia Comportamentale. Attualmente è ricercatrice post-doc presso l’ Università D’Annunzio di Chieti-Pescara dove si occupa di ricerca nell’ambito del marketing conversazionale. Si occupa di consulenza e di marketing per Umana-Analytics ed è docente del corso marketing automation presso la Católica Porto Business School.
Serena Iacobucci è dottoressa di Ricerca in Business & Behavioural Sciences ed attualmente Editorial Outreach Specialist per Frontiers, casa editrice svizzera di riviste scientifiche open-access. Ex ricercatrice post-doc e cultrice della materia in Economia e Finanza Comportamentale, si è occupata di consulenza e ricerca in Linguistica e Comunicazione Digitale ed è Content & Digital Strategist per lo spin-off Umana-Analytics. Serena è la Co-Editor in Chief e responsabile della comunicazione di EconomiaComportamentale.it, editor associata e responsabile della comunicazione digitale di InMind Italia – una rivista trimestrale dedicata alla psicologia sociale – e Social Media Officer dell’Associazione Internazionale per la ricerca in Psicologia Economica (IAREP – International Association for Research in Economic Psychology).
Articolo molto interessante